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mercoledì 7 novembre 2012

La viralità del sorriso: il contagio emotivo


Il sorriso è uno dei segnali di comunicazione non verbale che ricopre una vasta gamma di significati. Con il sorriso stabiliamo amicizie, dimostriamo  interesse verso i nostri interlocutori e spesso lo usiamo per sgusciare via da situazioni imbarazzanti. 
Come altri segnali della comunicazione non verbale, il sorriso, da primitivo segnale di non belligeranza si è trasformato in un’arma che ci aiuta a stabilire affinità, a regolare le relazioni interpersonali e anche a mentire.
Il neurofisiologo Guillaume Duchenne scoprì che il sorriso è controllato da due gruppi di muscoli facciali: i muscoli zigomatici maggiori che ci fanno sollevare gli angoli della bocca e ci fanno riempire le guance ed i muscoli orbicolari, quei muscoli che circondano le cavità oculari provocando quelle piccole increspature della pelle che chiamiamo comunemente: “zampe di gallina”.
La caratteristica fondamentale di questi muscoli è che gli zigomatici maggiori sono muscoli volontari, cioè muscoli di cui riusciamo a controllare i movimenti. I muscoli orbicolari invece sono muscoli involontari e difficilmente controllabili. 
Proprio per le molteplicità d’uso del sorriso, in psicologia della comunicazione si parla di differenti tipi di sorriso: solo uno è quello realmente spontaneo, il  cosiddetto Sorriso di Duchenne, cioè quel sorriso che coinvolge insieme i muscoli zigomatici e i muscoli orbicolari, che ci fa aprire la bocca, mostrare i denti, socchiudere gli occhi e che dura da 2 a 4 secondi.
E’ quel sorriso che favorisce la liberazione delle endorfine lasciandoci di buon umore e provocando l’effetto mirroring nel nostro interlocutore che ci ricambia spontaneamente il sorriso stabilendo un contatto empatico. 
Quando, invece, il sorriso è espresso solo dai muscoli zigomatici superiori ed inferiori viene chiamato Sorriso miserabile: è quel sorriso meccanico che utilizziamo quando per necessità dobbiamo accettare una situazione avversa e per convenzione sociale non possiamo dimostrare agli altri risentimento o disappunto. 
Ma perché il sorriso viene definito contagioso?
Lo psicologo americano Paul Ekman sostiene che il motivo per cui siamo più attratti dai volti sorridenti è che il nostro sistema nervoso è facilmente influenzabile. 
Il sorriso, come altre espressioni facciali, non sono soltanto espressione delle emozioni ma possono anche pilotarle. Attivando muscoli che portano a emozioni specifiche, il nostro corpo reagisce come se stessimo davvero vivendo questa emozione.
Un sorriso genuino è insomma un invito alla positività, che ci aiuta nella comunicazione interpersonale perché va a stimolare la regione temporale anteriore sinistra del nostro cervello, una zona con chiare connessioni a emozioni positive.
So folk, put on a happy face!

sabato 13 ottobre 2012

Rispettiamo le distanze 2: Paese che vai, distanze che trovi!


Anche se Edward Hall parla di precise distanze interpersonali ciò non vuol dire che queste siano universalmente valide né che vadano applicate metodicamente, anche perché Hall nei suoi studi prende a riferimento il modello Occidentale.

Insomma, vale il principio del “Paese che vai, distanze che trovi”.

Prendiamo a modello il mondo arabo e quello mediorientale: lì le trattative commerciali, da quelle  intavolate dai mercanti di un Suk, a quelle gestite da dirigenti aziendali, si svolgono tutte in uno spazio molto ravvicinato tra i due interlocutori.
In questa cultura, la Distanza personale viene utilizzata al posto di quella sociale, Distanza sociale che, ricordiamo,  rappresenta per noi occidentali  uno spazio ben sicuro che ci protegge saldamente nei rapporti interpersonali con persone sconosciute, appena conosciute o con cui non abbiamo un rapporto di natura confidenziale.

Senza andare troppo lontano, anche nel mondo occidentale esistono forti differenze di approccio spaziale: pensiamo alla differenza che c’è tra i popoli dell’area mediterranea (Italia, Spagna, Grecia) e le popolazioni nordiche (Inghilterra, Svezia, Danimarca ecc..). Anche il microcosmo Italia ne è un esempio: l’utilizzo dello spazio fatto da un italiano del nord può presentare forti differenze rispetto alla percezione psicologica delle distanze di un italiano del sud.

Il modo di utilizzare lo spazio è contaminato quindi dalla cultura di riferimento ma anche dalle caratteristiche personali: il tutto per creare situazioni in cui una corretta o errata distanza rispetto al nostro interlocutore fanno prevalere il peso della Comunicazione non verbale  sulla Comunicazione verbale

Nella vita quotidiana comunque non utilizziamo un’appropriazione dello spazio attiva, nel senso che non controlliamo continuamente che nel “nostro” spazio non avvengano violazioni, ma ci avvaliamo di una prossemica passiva, che si manifesta come fastidio e disagio nel caso in cui la nostra bolla subisca un’intrusione non desiderata o attesa.
Questo sistema prossemico di misurazione delle distanze non è quindi determinato dalla casualità o dall’istinto umano. Ognuno di noi può diventare consapevole e sfruttare a proprio favore nella Comunicazione lo spazio psicologico dell’altro. 
Buona Prossemica a tutti!


giovedì 11 ottobre 2012

Rispettiamo le distanze: le Zone Interpersonali



Il modo in cui ci disponiamo nello spazio trasmette dei messaggi non verbali a coloro che ci stanno vicini. 
Noi stessi inconsapevolmente rileviamo questi messaggi e rispondiamo con atteggiamenti emotivi.
Il modo in cui gestiamo lo spazio può essere attribuito ad un retaggio del mondo animale: viviamo la limitazione del nostro spazio vitale come una belva che deve combattere o fuggire e risponde all’intrusione con aggressività o paura. 
Quante volte ci è capitato di giudicare male una persona solo perché invade il “nostro spazio” e non rispetta la distanza appropriata. 
Il nostro inconscio fa gli straordinari e lavora per noi anche quando pensiamo che sia a riposo. Se ci presentiamo a qualcuno, se entriamo in una stanza o saliamo su un autobus pieno di gente, lo spazio che occupiamo darà una precisa comunicazione di noi stessi agli altri. 
L'antropologo Edward T. Hall sapeva di ”Portare consapevolezza a ciò che viene dato per scontato” quando elaborò il modello delle Zone Interpersonali.
Il nostro corpo riesce a comunicare attraverso quattro tipologie di distanze differenti, misurabili in metri o “braccia”:
- La più prossima al nostro corpo è la distanza intima: uno spazio tra noi e gli altri che va da 0 a 45 cm misurabile anche con un avambraccio teso in avanti. In questo spazio così ristretto facciamo entrare solo poche persone con cui abbiamo delle strette relazioni affettive nonché familiari. Se questo spazio viene violato da estranei, provoca in noi una forte sensazione di disagio.
-La seconda è la distanza personale, uno spazio che va dai 45 ed i 120 cm, misurabile anche con un braccio teso in avanti. Permettiamo di valicare questo spazio ad amici e conoscenti con cui abbiamo instaurato confidenza. Può essere considerato lo spazio della stretta di mano e rappresenta per il mondo Occidentale la distanza ideale in buona parte delle interazioni.
-La cosiddetta distanza sociale invece, è quella distanza che va dai 120 ai 300 cm, misurabile anche con le braccia tese di due interlocutori. Questa distanza è funzionale per rapporti sociali di formalità e ci permette di trovare confort nelle situazioni impegnative come colloqui di lavoro o trattative importanti.
-L’ultima è la distanza pubblica: quella distanza oltre i 3 m funzionale alle situazioni pubbliche come conferenze o comizi in cui uno speaker deve affrontare una platea e in cui la probabilità di interazione è scarsa. 
Possiamo metaforicamente immaginare  queste distanze come delle bolle invisibili che ci avvolgono e proteggono dall’esterno. 
Alla violazione di queste bolle mettiamo in atto degli accorgimenti mirati a ripristinare la distanza spaziale e psicologica: ad esempio, poniamo degli oggetti tra noi e l’interlocutore o evitiamo lo sguardo con l’altro, incrociamo le braccia, orientiamo il nostro corpo in un’altra direzione e utilizziamo altri gesti di chiusura.

domenica 7 ottobre 2012

Perché è importante la Comunicazione



Nella nostra vita quotidiana dobbiamo costantemente relazionarci con persone che vogliono qualcosa o da cui vogliamo qualcosa.
La Comunicazione è importante nelle nostre prove quotidiane: dalle trattative con i clienti ai colloqui di lavoro, dai rapporti con i colleghi alla gestione dei dipendenti.
La Comunicazione è un’arte che, se utilizzata correttamente, ci permette di trasmettere dei messaggi e farci comprendere dai nostri interlocutori.

Il filosofo austriaco Paul Watzlawick elabora nel 1972  

Gli assiomi della comunicazione:

1) Non si può non comunicare: ogni comportamento è una forma di comunicazione. La comunicazione avviene anche se non è intenzionale o conscia. Anche il silenzio comunica. 
Quando quindi si parla di comunicazione efficace si parla di consapevolezza dei messaggi che dobbiamo veicolare, siano essi verbali che non. 

2) Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione: gli aspetti di contenuto sono le informazioni che vengono trasferite (il “cosa”), mentre gli aspetti di relazione sono il modo in cui vengono veicolati i contenuti (il “come”). 

3) Le relazioni possono essere simmetriche o complementari:
a. nelle relazioni simmetriche l’uno tende a rispecchiare il comportamento dell’altro.
b. nelle relazioni complementari il comportamento di uno completa quello dell’altro.

4) La comunicazione umana è sia analogica che digitale: la comunicazione non coinvolge solo la lingua parlata ma anche l’aspetto non verbale ed il verbale analogico.

5) È sbagliato supporre che l’altro colga le stesse informazioni e le elabori nello stesso modo: non esiste una sola realtà, e pur ammettendo che due individui colgano nello stesso istante lo stesso aspetto della realtà, è praticamente impossibile che questo venga vissuto nello stesso modo e che dia origine alle stesse conclusioni.


Questi assiomi sono molto utili per inquadrare quelle che sono le problematiche relative al comunicare ma non forniscono né una soluzione né delle best practices per i problemi che ne derivano .